Nel giorno di Ognissanti si teneva una processione, in cui i fedeli portavano delle candele accese, che partiva dalla chiesetta del cimitero comunale e si spostava nella chiesa del paese.
In quel periodo era costume svuotare le zucche, dette in dialetto li cucoccə, per rappresentare li coccə də li murtə (o, semplicemente, la mortə), ossia le teste dei morti. Questa usanza, che oggi associamo al mondo anglosassone, in realtà era diffusa anche nella vallata vibratiana e fino alla metà degli anni Sessanta era ancora praticata. Le zucche, una volta svuotate della polpa e dei semi, venivano intagliate per ricreare delle facce e all’interno si metteva una candela per illuminarle. Nella notte tra il 31 ottobre e il 1° novembre, le cocce venivano esposte davanti alle case.
Nella stessa notte, dopo la cena, si lasciava la tavola imbandita con qualche piatto, perché si pensava che i defunti sarebbero tornati a visitare la casa dove avevano abitato in vita. In alcuni casi si lasciava anche uno strofinaccio, un asciugamano ed un catino di acqua, perché si credeva che il trapassato avrebbe potuto aver bisogno di queste cose per darsi una ripulita dopo il lungo viaggio.
Alcuni alimenti di stagione che si consumavano in quei giorni erano associati ai morti: tali erano le fave, i ceci, le melagrana e, appunto, le zucche invernali. Un dolce tipico del periodo erano le fave dei morti, ossia dei biscotti, simili agli amaretti, che venivano modellati a forma di fave. Nei tempi passati il rapporto con la morte era quasi “sereno”, per via della frequenza con cui l’evento tragico toccava le famiglie; non deve stupire, quindi, che attorno al lutto orbitassero molte usanze e credenze, a volte religiose e a volte superstiziose: erano tutti metodi per esorcizzare la paura del trapasso e per tenere viva la memoria dei cari estinti.