La Pasqua era una ricorrenza molto sentita, sia in paese che nelle campagne, e diversi erano i riti e le tradizioni legate alla Passione di Gesù e alla sua Risurrezione. Per le Ceneri si organizzava un grande falò nella piazza antistante alla chiesa parrocchiale di San Benedetto Abate e il parroco benediceva prima il fuoco, poi l’acqua. La sera del Venerdì Santo, prima della processione, si celebrava un rito chiamato li vattizzirə. In chiesa veniva rievocata la flagellazione di Gesù: il sacerdote e alcuni fedeli battevano a terra dei bastoni, come se stessero flagellando qualcuno. Alcuni si univano alla rievocazione battendo persino con le mani. Dopo li vattizzirə cominciava la solenne processione, con le statue del Cristo morto (in passato coperta dal baldacchino) e della Madonna Addolorata. In quel giorno non potevano suonare le campane, che venivano “legate”, ed erano “sciolte” solo la domenica a mezzogiorno.
Altro rito oggi scomparso è lu svejarì. Al posto del suono delle campane, le quali erano, come già detto, “legate”, i bambini scorrazzavano per le strade facendo rumore con uno strumento artigianale detto tricchə-tracchə, una sorta di tavoletta con dei sonagli, dotata di impugnatura in ferro. Per tutto l’anno questi strumenti erano conservati nella sacrestia, ma alla mezzanotte del Venerdì Santo il parroco li distribuiva ai bambini, che andavano poi correndo per le vie del borgo. Ovunque, in quella notte, si sentiva il suono del tricchə-tracchə.
Nel periodo pasquale si realizzavano le pupe e i cavalli, biscotti dolci a forma di donna o di cavallino; alle femminucce si regalavano le prime e ai maschietti i secondi. La mattina di Pasqua, per colazione, si consumava una particolare “spianata”, che rompeva i giorni di digiuno. La particolarità di questa focaccia è che prima della colazione veniva portata alla messa del mattino e benedetta; solo dopo la benedizione si consumava. Quello pasquale era un pranzo molto importante, dove si gustavano numerose leccornie. I più anziani ricordano che la prima portata consisteva, generalmente, in un grande piatto di maccheroni, perché il timballo non era ancora conosciuto tra i popolani. Pare che quattro donne del paese, che venivano chiamate per preparare i grandi pasti nuziali, in quanto dotate di buone capacità organizzative, avrebbero appreso i segreti del timballo in occasione del matrimonio della figlia di un maestro, celebrato intorno alla metà degli anni Cinquanta, poiché a preparare il pranzo nuziale venne chiamato anche un cuoco di Pagliare che lavorava nei ristoranti: le quattro donne osservarono scrupolosamente le fasi della preparazione e impararono subito a riprodurre la prelibatezza. Da allora il timballo entrò stabilmente nei pranzi “importanti”, come quello pasquale.
Oltre ai maccheroncini e al timballo, molto apprezzato era anche il brodo di maiale, che rientrava sempre tra i primi. Si preparavano anche le scrippellə mbossə tipiche del Teramano, ma la sfoglia veniva tagliata a quadratini. I secondi erano generalmente a base di carne. Un dolce tipico era la pizza dolce, che si preparava in tutte le case e ogni massaia aveva il suo “segreto”, che la diversificava dalle altre. Si preparavano anche il pan di Spagna e i taralli lessi. Tipica era la spianata levata, una sorta di panettone. Questo dolce, però, veniva acquistato dai fornai, perché la preparazione era piuttosto complessa e pochi lo realizzavano in casa.
Dopo il pranzo di Pasqua si giocava a stazzə, una specie di gioco delle bocce simulato lanciando un pezzo di mattone o una pietra arrotondata. Si giocava anche a schioppetta e a spaccamatù, due giochi con le monetine. Spettacolari erano le gare di rutula, che attiravano molti spettatori. I concorrenti facevano rotolare delle forme di formaggio lungo una strada in pendenza, generalmente Via Giovanni Amadio o Via Gabriele d’Annunzio, e vinceva quello che riusciva a far percorrere più strada al suo formaggio. Il vincitore prendeva tutte le forme di formaggio dei concorrenti perdenti. Non mancavano giochi più comuni, come la morra, la passatella, il testa o croce e il nasconna, ossia il nascondino. Tipico delle ragazze era anche lu zembittə, ossia i saltelli con la corda.
Durante tutto il periodo delle feste pasquali i bambini si divertivano a giocare a scoccia, un gioco molto semplice: delle uova sode venivano colorate o ricoperte di carta velina e poi si sbattevano non troppo forte tra di loro. Quello che si rompeva per primo perdeva, quello che rimaneva integro vinceva. I bambini del paese si sfidavano a questo gioco, mettendo in palio altre uova e dolcetti.
A Pasquetta si passava l’acqua, ovvero si trascorreva la giornata fuori porta, concedendosi una bella gita che durava tutto il giorno. A Controguerra i paesani si ritrovavano nelle Piane di Tronto o al lago di Crescenzi e facevano una lunga merenda campestre. Quaranta giorni dopo la Pasqua cade l’Ascensione e anche in tale ricorrenza era uso svolgere una processione. Nei tempi passati si usava portare tutte le statue delle chiese, tranne l’effige della Madonna delle Grazie, ma intorno alla metà del Novecento l’usanza cambiò: i testimoni che ho intervistato ricordano che non venivano più portate statue in processione, ma solo una croce processionale. Il sacerdote si recava nei principali punti panoramici nei pressi dell’abitato e benediceva le contrade controguerresi.