Un tempo le malattie e le epidemie falcidiavano la popolazione e la civiltà contadina ha sviluppato una serie di credenze pseudo-mediche le quali, alle volte, avevano un fondamento scientifico scoperto “empiricamente”, ossia provando e riprovando, altre volte, invece, non avevano alcun riscontro scientificamente valido ma davano un beneficio indiretto: “calmavano” l’animo del malato, che si convinceva di poter stare meglio. Purtroppo nelle epoche in cui sono vissuti i nostri antenati era difficile raggiungere l’età della vecchiaia: nessun tempo nella storia ha conosciuto, sotto il profilo della salute, il benessere di cui godiamo oggi. Nel corso di questa ricerca ho annotato alcuni “rimedi” descritti dagli anziani.
Contro i malanni del raffreddore e per alleviare il mal di gola si ricorreva al miele, al vino cotto o al mosto cotto, oppure ai decotti, di cui esistevano numerose varianti: alle foglie di maulə (malva), alle ramaccə (gramigna), alla caməminnəla (camomilla). Quest’ultima veniva abitualmente raccolta, in particolare il giorno dell’Ascensione, ed essiccata. Alcune ricette erano più elaborate, come quella che prevedeva l’utilizzo delle scorze di arancia, della cannella e del miele, che venivano fatte bollire insieme. Altro decotto prevedeva l’utilizzo delle scorze di melograno, del vino rosso e della cannella, sempre fatti bollire insieme. Se il mal di gola persisteva, nell’infuso veniva intriso un fazzoletto di stoffa, che poi veniva annodato attorno alla gola.
Per alleviare i problemi respiratori si ricorreva anche agli sfummichi, ossia ai suffumigi: venivano fatti bollire decotti, o anche vino rosso, e se ne respiravano i vapori.
Per curare le ferite da taglio, che in campagna potevano capitare frequentemente, si ricorreva a impacchi di erba medica o di cardi. Se possibile la ferita veniva disinfettata con l’alcool o, in assenza d’altro, con il vino rosso. In casi particolari si poteva ricorrere anche all’urina, che si riteneva potesse far cicatrizzare prima la ferita.
Un “rimedio” contro il mal di testa e, diremmo oggi, anche contro le forme lievi di depressione, era il passaggio dell’ammidia, ossia dell’invidia, intesa come “malocchio”. A differenza degli altri rimedi appena ricordati, questo non aveva benefici scientifici, ma agiva sull’autoconvincimento delle persone. In buona sostanza, la persona che soffriva di debolezza, stanchezza cronica o emicrania veniva portata da una signora (generalmente era una donna) che fosse notoriamente in grado di praticare il rituale.
Infatti, non tutti potevano passare l’ammidia, poiché le formule recitate non potevano essere rivelata a chicchessia ma, almeno nella versione più ortodossa del rito, potevano confidarsi solo alle persone nate col velo, cioè avvolte nella placenta. Siccome, però, questo accadimento è molto raro, la regola non sempre veniva rispettata, anche perché in ogni paese faceva comodo avere qualche signora in grado di passare l’ammidia. Invece, veniva sempre rispettato il divieto di rivelare il segreto fuori dall’unico periodo dell’anno in cui era consentito: la notte della Vigilia di Natale. Si credeva che apprendere i segreti del rito in altro periodo dell’anno lo avrebbe reso inefficace. La formula, quindi, si tramandava oralmente solo a persone fidate.
Durante il rito dell'ammidia il “paziente” veniva fatto sedere e l’esperta (colei che praticava il passaggio dell’ammidia) preparava tre piatti, in cui versava un dito d’acqua, e una tazzina con dell’olio. Dopodiché, l’esperta intingeva un dito nell’olio e con lo stesso tracciava al paziente una croce sulla fronte, apponendovi le mani. A questo punto, recitava la formula a bassa voce. Infatti, mentre il resto del rito poteva anche essere raccontato e descritto, la formula doveva restare assolutamente segreta anche per il paziente, altrimenti avrebbe perso efficacia. Pronunciata la formula, l’esperta portava la mano unta sopra ad uno dei tre piatti e vi lasciava cadere una goccia d’olio. L’esperta, dall’osservazione della goccia nell’acqua, riusciva a capire l’entità del malanno da guarire. La pratica appena descritta andava ripetuta altre due volte, facendo cadere una goccia anche nei restanti due piatti.
La versione più ortodossa del rito prevedeva che l’olio e l’acqua utilizzati andassero bruciati finito il rituale. A questo punto potevano accadere due cose: o la persona sottoposta al rito guariva dal malanno lamentato, oppure non guariva e tornava dall’esperta, per ripetere il rito. Gli anziani raccontano che questo rituale apportava benefici che avevano riscontrato su amici, famigliari e persino su loro stessi.
Avvolta da un’aura di “magia” era la preparazione del brevero (o breve). Essenzialmente si trattava di un sacchetto-amuleto contenente erbe, foglietti con preghiere o presunte reliquie. Il fine era simile a quello del passaggio dell’ammidia, con la differenza che, oltre a guarire i malanni, questo poteva anche prevenirli! In particolare, il brevero serviva a guarire i bambini dal deperimento, che si credeva potesse derivare dai riti malvagi fatti delle streghe. Se la madre sospettava che un figlio fosse stato colpito da qualche malanno conseguente a opera di stregoneria, allora si recava dalla magara o da lu magò, soggetti esperti nella preparazione di brevi e filtri. Questi, dopo aver compreso il problema, preparavano il sacchetto “magico” e lo consegnavano al malato, che doveva portarlo appeso al collo.
Siccome lu magò o la magara credevano ciecamente nella loro arte, di solito non chiedevano alcun compenso per i riti praticati, perché normalmente queste figure si sostentavano con altri mestieri ed erano convinti di dover “restituire” un favore alla società per il dono ricevuto.